La mia infatuazione per il basket americano (che è obiettivamente altro sport rispetto alla pallacanestro) non è mai stata costante o esclusiva. Ha seguito il ritmo di alcuni momenti biografici e televisivi.
La prima, piuttosto comune a molti della mia generazione, è legata alla prima sbronza televisiva italiana di NBA e alla grande rivalità tra Los Angeles Lakers e Boston Celtics, che ha segnato la fine degli anni ’80. Ricordo che studiavo – o facevo finta di farlo -guardando le sfide tra Larry Bird e Magic Johnson. Tifavo per il secondo: a 14 anni come fai a non rimanere affascinato da uno che si chiama “magico”.
Dormicchiai un po’ invece durante il periodo dei Bulls di Micheal Jordan. Non so perché, ma il basket non era più nella mia testa. Ci tornò con i Lakers di Shaquille O’ Neal e Kobe Bryant, che sì, lo sapete già tutti ci ha appena lasciato in un incidente di elicottero, con a bordo anche sua figlia Gianna Maria di 13 anni.
Da qui queste ovvie memorie, un senso di malinconia e di disagio, quasi di immobilità. Ne scrivo, fuori contesto, come sempre, per elaborare ed esorcizzare.
Al mio secondo amore però non tifavo per i Lakers. Mi ero innamorato come sempre di una squadra minore: I Sacramento Kings irripetibili di Mike Bibby, Chris Webber, Vlade Divac, Doug Christie Peja Stojakovic e il meraviglioso sesto uomo Bobby Jackson.
E finii per odiare i Lakers, colpevoli anche di una vittoria al limite del tempo scaduto in una mitica semifinale di playoff.
Era il 2002 e un tiro di gara 6 distrusse il cuore di chi amava i Kings come ricorda bene Aroundthegame. Di fatto spense le speranze di titolo di una grandissima squadra. Ma per una volta non era stato Kobe a uccidere il sogno, ma Horry con un tiro che mi gelò il sangue.
Ma i Lakers, anche e nonostante la fantastica e ingombrante presenza di O’Neal, erano Bryant, l’uomo degli isolamenti, dei tiri impossibili, del carisma assoluto. Quello a cui affidare la palla sempre e comunque.
Senza amarlo visceralmente Kobe è stato il giocatore di cui ho visto il maggior numero di partite. Ne ero spesso irritato, speravo fallisse qualche volta, ma ero sempre silenziosamente ammirato dalla sua incredibile classe. Aveva quella dote che cerchiamo nella sport, quella luce che solo pochi sanno accendere: Bryant era epico, l’uomo delle missioni impossibili.
Questo uomo qui
Bryant, che parlava perfettamente italiano per la sua infanzia a Pistoia, era un dio del basket. Non era necessario tifarlo per saperlo, era al di là del bene e del male, quasi costantemente come Maradona contro l’Inghilterra, era la scintilla che rende febbrile la visione.
Sì, Bryant era un dio. E questa morte fa malissimo.