Insomma, Matteo Berrettini è in semifinale agli Us Open! Ci arriva con un’altra grande prestazione, contro Monfils, dopo un finale epico al tie break del quinto, a seguito di quattro match point annullati, con l’angoscia addosso della rimonta del francese dal 5 2 nel set finale.
Per chi ha fatto per anni dell’ironia (mista a speranza e tifo) sui proclami di eterna salute del movimento tennistico italiano e ci ha aperto anche questo blog – che aspira a giocare, guardare in altre direzione, dissacrare e spegnere l’incendio retorico -, raccontare certi trionfi e trovare la foto di Matteo come apertura di quattro degli ultimi sei post pubblicati può perfino spaesare.
Oggi la semifinale di Berrettini è in prima pagina, o come spalla del nuovo governo Conte, ovunque! Tanto che mi chiedo cosa c’entro io a questo punto? Cosa c’entra Storieditennis, che è il parco gioco preferito di una manciata di malati goliardici, fissati con i nomi buffi, i tornei sperduti, le storie sghembe, le scommesse, la nostalgia e l’epica autoimposta.
Ma una grande partita è una grande partita e ieri lo è stata. Ne ha avuto tutti i crismi, sin dai primi set che non ho seguito, ma che è come avessi visto, grazie al connubio di livescorismo, librofaccismo e whatsappismo ricevuto. A un certo punto mi sono sentito il destinatario di una serie di convergenze epistolari tanto compulsive che per un momento ho pensato che raccontarle sarebbe stato il vero post da fare.
Invece ancora non so quale sia il post da fare ed è il bello di questo spazio: scrivo un po’ quel che cavolo mi pare. E vi dico che nel finale ho temuto molto per Berrettini, perché conosco ottimamente Monfils, le sue morti apparenti, i break a zero da cui si riprende sempre.
E sto conoscendo sempre meglio Berrettini, che ha un problema quando deve chiudere la partita al servizio. Ma ha la forza di non starci a pensare dal game successivo, che è capacità molto più rara della comune titubanza sulla linea del traguardo. Non sono tutti Nadal e Djokovic. Per tutti gli altri, Federer compreso, è un singhiozzo naturale.
Per dirla con le leggi idiote che abbiamo inventato qui dentro, Monfils l’avrebbe potuta anche vincere, appellandosi alla legge dei match point falliti dall’avversario: quando superano i quattro le cose si fanno sempre nere, nel pomeriggio ce lo aveva ricordato anche Stakhovsky contro Lamasine. Altri campi, altri contesti, derive da storieditennis, ma stessi meccanismi.
Invece Berrettini ha tenuto e infine divelto (sapete che contratto non posso completare un post senza “divellere”) perché era giusto così: la partita era da molto in suo totale controllo, anche fisico, nonostante l’atletismo di Monfils e il poco storico di Matteo sul cemento, a causa dell’infortunio post Wimbledon.
Bella l’esultanza, bellissima l’intervista subito dopo, l’ironia e il disincanto intrinsecamente capitolini: “Non ricordo molto, non ho ancora realizzato, non ricordo nulla… anzi il doppio fallo sul match point me lo ricordo”. Non è una traduzione letterale, ma concettuale, Berrettini sembrava Rocky che non voleva parlare del suo futuro e anche io ero abbastanza confuso e demolito dal sonno.
Il suo futuro più immediato però ha il volto scavato e sadico di Nadal: dove passa lui qualsiasi sogno muore. Non ho nulla contro lo spagnolo, come alcuni pensano, ma rappresenta tutto ciò che per me spoetizza lo sport, sembra un eterno sofferente costretto a vincere per non morire.
Il viaggio di Matteo terminerà lì, contro quel muro, salvo miracoli, in semifinale. Chi lo avrebbe detto?
Speriamo solo Berrettini sia sereno e pronto alla battaglia, privo della sudditanza psicologica che lo ha ucciso nella partita contro Federer, sui sacri prati di Wimbledon. D’altronde qui siamo a New York, al massimo c’è spazio per il mito, ma nulla è sacro.
Di sacro c’è solo il cannibalismo sportivo di Nadal. In bocca a lupo, Matteo.