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Gli infedeli e la cattiva ricezione critica della commedia italiana

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Due posizioni scentrate “governano” il dibattito ricettivo su Gli Infedeli, la commedia a episodi di Stefano Mordini, con Valerio Mastandrea e Riccardo Scamarcio, remake dell’omonimo film francese, disponibile su Netflix.

Ci sono i delusi: rappresentano un’ampia fetta della critica – o di quello che ne è rimasto – e argomentano più o meno con i soliti strumenti. La scrittura, la regia, il ritmo, cosa funziona, cosa no, quali episodi divertono, quali meno. Per fortuna non ho letto nessuno parlare di fotografia.

Poi ci sono gli entusiasti o comunque quelli che sono stati sorpresi in positivo soprattutto da cosa dice il film e secondariamente da come lo dice. Sono interventi anche stimolanti, spesso viziati da un certo autoritarismo critico italiano (per il quale la lettura soggettiva è così importante che vale molto più della riuscita di un film), ma non mancano spunti e rimandi alla commedia italiana con Ugo Tognazzi interprete, per trovare – qui – un contenitore vado, ma chiaro, e alla sua capacità di decodifica dell’antropologia nazionale.

Infine ci sono quelli che plaudono il lavoro degli interpreti. Più o meno tutti. Fanno bene. Raro caso di film italiano non affossato dagli attori, Gli Infedeli fa decisamente centro sotto questo punto di vista.

Eppure guardando il film, per quanto sia ovvia la distanza dai modi e dai discorsi della commedia italiana contemporanea, non si capisce perché questa scelta debba essere un valore in se stesso.

Non solo perché ribellarsi a un modello, prendendone in prestito un altro non garantisce alcuna patente qualitativa, ma soprattutto perché il film di Mordini ribalta totalmente il carattere della commedia italiana beffarda e sociologica che vuole riabilitare. Sembra proprio rifiutarne lo spirito.

Gli infedeli è nel suo profondo un pippone moralista, situazionista e (fin troppo) severamente autoaccusatorio, che non sa far ridere dei vizi del maschio italiano perché vuole dirci che non c’è nulla da ridere nell’essere così. Invece da ridere c’è, eccome se ce n’è.

Non c’è gioia, non c’è riso, non c’è complicità nei comportamenti narrati, almeno al di fuori da un certo sberleffo ben architettato, perché questo è ancora una volta un film che mette in mostra il senso di colpa.

Ci dice, anzi ci impone, di scusarsi, per come siamo, per come ci comportiamo, perfino per quello che pensiamo. Ci dice, senza gridarlo, che dobbiamo aspirare solo a essere moderni consumatori, conformisti, pacifici ed eterodiretti, invece che persone anche sbagliate, selvaggi con degli istinti.

Ci dice di rigettare tutto, anche l’ironia, che nel film è solo la chiave per imparare a disprezzarci e specchiarsi nel nostro stupido narcisismo, rievocato in un finale tremendamente didascalico. Così è se vi piace.