Quel sottile guilty pleasure chiamato ballata hard rock: Scorpions, Still Loving You

Quel sottile guilty pleasure chiamato ballata hard rock: Scorpions, Still Loving You

Pacchiane, melense, ruffiane, interpretate con voce enfatica e romanticismo dozzinale, corredate con accendino nei concerti e mega assolo di chitarra catartico: le ballate hard rock (come anche quelle heavy metal) sono un vero genere che, almeno per me, ha sempre sconfinato nel guilty pleasure.

Della serie, pezzi che dovresti detestare e finisci per cantare a squarciagola quando nessuno ti guarda, fottendone del tuo orgoglio di mezza età. Stanco di nascondermi, ho deciso di sublimarle attraverso una periodica sistematizzazione.

Spostiamo le coordinate verso l’anno 1984 e partiamo con i teutonici Scorpions, gruppo di cui non me ne è mai fregato molto, ma che riconosco essere stati artefici di un robusto e ispirato hard rock negli anni ’70.

Come tutte le band che hanno registrato le cose migliori nel decennio irripetibile, in quello successivo hanno vivacchiato tra dischi solidi e schematici, hit anonime e in alcuni casi urticanti. Insomma un rock muscolare, tutta energia, mestiere, copertine d’effetto e migliorie produttive.

Nel 1984 però i tedeschi piazzano Love at First Sting che, nel suo genere, è album di livello.

Soprattutto, arriva lei, la nona traccia, la superballata: Still Loving You.

Ascoltiamola. Anzi, guardiamola.

https://youtu.be/CjRas1yOWvo?t=196

Ecco, prima ancora delle derive estetiche, dell’arpeggio paraculo, delle modalità da clip anni ’80, un colpo violento al cuore arriva dalle regole del music business. Il pezzo è dilaniato, devastato, divelto (nel suo crescendo epico e nella sua drammatica) dalla versione ridotta.

Still Loving You dura 6 minuti e 29 secondi e non 3 minuti e 51. Questa è eiaculazione precoce della peggior specie, ma proviamo a soprassedere.

Il video è profondamente hard rock nel suo ribadire il primato strumentale: pochi secondi di intro a caso (gente che cammina…) e già siamo sul primo piano del cantante Klaus Meine, per poi passare al leader maximo, Michael Schenker, ascia di prim’ordine, incurante di un abbigliamento irricevibile.

Il particolare della mano virtuosa ci ricorda, appunto, che in questi video non c’era spazio per l’astrazione, ma solo per il gesto e per la sua evocazione, roba semplice per gente semplice, giusto così.

Poi entra la sezione ritmica e scatta il totale sul palco con tanto di nebbia, è già tripudio.

Nulla cambia più almeno fino al volo di un gabbiano, prima che Schenker finisca su una montagna ad accennare il solo, ma, come già detto, il tradimento rispetto alla versione dell’album è inaccettabile, e siamo già di nuovo sul palco prima che tutto venga fatto sfumare brutalmente.

Un accenno al testo francamente seminale. A me questa idea di omaccioni, capelloni e ossuti, profondamente crucchi, che narrano del tempo che ci vuole per riconquistare l’amore perduto e tutto quello che si deve fare per riportarlo all’antico splendore, mi sembra talmente straniante che non posso subirne la fascinazione.

Ecco, il testo non dice davvero null’altro, a suo modo un record: ha un solo concetto ribadito allo sfinimento. Ma quel crescendo ragazzi! E quel dannato, grandissimo assolo di chitarra stuprato dal videoclip!