Poteva succedere ed è successo. La seconda edizione del challenger dell’Aquila passerà alla storia come uno dei peggiori risultati dell’italtennis dell’ultimo decennio.
Forse addirittura il peggiore in assoluto. Non ho statistiche che possano (s)confortare in questo senso e la mia memoria di ultraquarantacinquenne inizia giustamente a vacillare, ma per trovare zero italiani agli ottavi di finale in un torneo challenger nostrano credo che occorra tornare molto indietro nel tempo.
Intendiamoci, l’eterna salute del movimento non può essere messa in discussione da un passaggio a vuoto (peraltro giustificabile, come vedremo), ma una rapida analisi dei risultati abruzzesi, come il successo del Tavernello, invita a riflettere.
Un torneo di difficile collocazione
Il challenger dell’Aquila, nato anche con il lodevole intento di valorizzare e accendere i riflettori sui luoghi segnati dal terremoto del 2009, paga senz’altro la collocazione temporale non proprio ideale.
La contemporaneità con le qualificazioni agli Us Open esclude inevitabilmente da questi tornei la fascia di giocatori compresa tra il numero 110 e il 230 del mondo, ossia il sale del circuito cadetto e del movimento, che in quella fascia divelle.
Infatti, alle qualificazioni US Open, quest’anno, hanno partecipato tredici italiani, quasi tutti potenzialmente in grado di arrivare alle fasi finali di un challenger, come hanno dimostrato ampiamente negli ultimi mesi.
Se poi il torneo in questione si svolge dall’altra parte del mondo rispetto alle qualificazioni Slam, non c’è neanche la possibilità di attrarre tennisti già dentro al tabellone americano, ma con scarsa dimestichezza con la superficie, come era invece capitato a Milano, la settimana prima di Wimbledon.
E allora, per tentare di stilare una entry list accettabile, non resta che sperare in qualche bucaniere da challenger talmente allergico alla superficie da rinunciare al generoso assegno del primo turno di quali o in qualche nome altisonante a fine carriera e per questo meno propenso a viaggi transoceanici.
Per quanto riguarda la prima tipologia, non ci sono attualmente sul mercato italiani disponibili. Le qualificazioni Slam finalmente le fanno praticamente tutti, magari non le preparano benissimo, ma la partecipazione è sempre massiccia e agguerrita.
All’Aquila hanno comunque pescato lo slovacco Andrej Martin, classe ’89, che non vince una partita sul cemento dalle Olimpiadi di Rio, in entry list con classifica numero 120 e ovviamente testa di serie numero uno. C’era pure Balasz, finalista a Umago, ma ha tirato pacco.
La seconda tipologia sembra l’identikit di Bolelli ma Simone, dopo anni di tentativi infruttuosi di rientro nei top100, pare intenzionato a concentrarsi soprattutto sul doppio (decisione che gli allungherebbe la carriera e aumenterebbe il conto in banca, a mio modesto parere) e quindi si è iscritto solo a quello. Perdendo al primo turno, peraltro.
Purtroppo, in un torneo che vede come testa di serie numero due il numero 236 del mondo, le poche cartucce azzurre rimanenti hanno mostrato tutti i loro limiti. Ci si poteva aspettare qualcosa da Moroni e Brancaccio, teste di serie e quindi esentati dall’impegno al primo turno, ma hanno perso subito.
Musetti sta pagando inevitabilmente il passaggio nel mondo dei grandi, dagli altri (Forti, Bonadio, Vavassori) non è che fosse lecito attendersi molto di più.
Alla fine una mezza nota lieta è arrivata da Quinzi, dopo mesi di guai fisici, con una vittoria convincente al primo turno, seguita però dalla sconfitta con il già citato Martin. Ci si accontenta di pochino.
Spiace dunque per L’Aquila, che avrebbe visto volentieri qualche azzurro nelle fasi decisive del torneo, ma su col morale, non è mica da questi tornei che si giudica il movimento.