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Il femminismo disfunzionale di Serena Williams

La finale di Montreal tra Bianca Andreescu e Serena Williams è durata appena 19 minuti. Per la prima, giusto il tempo di apprezzare il tifo dello stadio, affollato di canadesi e di immigrati rumeni, e di levare il servizio a Serena.

La partenza lenta della Williams non è una novità e ci preparavamo ad una bella finale: contrasto di stili, età diverse e per la prima volta dopo mesi Serena motivata e in discreta forma fuori Slam a parte.

Poi d’improvviso il piccolo dramma. Serena scoppia a piangere al cambio di campo, dice che non ce la fa più, la Andreescu accorre premurosa e cerca persino di rallegrare la sua avversaria, ma il ritiro è immediato.

Seguono due stitiche parole durante la premiazione, per dire che stava troppo male, stessa spiegazione alla conferenza stampa, dove ha argomentato sui dolori terribili accusati e sulla discesa in campo avvenuta sperando in un miracolo.

Rimane nella memoria la faccia di Patrick Mouratoglou, allenatore della Willians, che porta via il borsone con l’espressione di chi ha già le risposte, ma ha pochissima voglia di fare le domande.

Ci chiediamo allora: Esiste un caso Serena nella WTA? Forse, ma non si può dire senza venire tacciati di maschilismo.

La tennista migliore in circolazione non è mai tornata veramente in forma dopo il parto, non ha perso peso (almeno non abbastanza) e ha spostato il dibattito dal tennis ai completini da cat woman o sulle tute riducenti.

Nonostante questo, mancando una vera regina, ha raggiunto finali Slam, mancando solo la vittoria.

Il tennis dopo la gravidanza

Il ritorno al successo sportivo dopo la gravidanza è un’avventura complessa, ancora di più considerando che la Williams ha subito varie operazioni ed ha avuto una gestazione molto difficile.

Ci riuscì Kim Clijsters, classe 1984. Rientrata nel 2009 vinse gli US Open 2009 e 2010 e gli Australian Open 2011, diventano un simbolo positivo per il tennis femminile. Bimbo in tribuna, marito supporter e un gioco che pareva persino migliorato.

Con Serena non è stato così semplice. Il suo tennis dirompente è ancora tutto lì, ma spesso gioca quasi da ferma, come durante la finale di Wimbledon dove è stata surclassata dalla Halep.

Poi c’è una certa tendenza della Williams a buttarla in bagarre, eccedendo nell’autocommiserazione, quando la partita non gira e se malauguratamente l’arbitro non tiene la barra dritta.

Incredibile la finale US Open 2018, persa contro la Osaka, condizionata da una decisione arbitrale discutibile ma trasformata in uno psicodramma inaudito, con poco rispetto per la giovane rivale, quasi in colpa per avere battuto Serena a casa sua.

Baby Osaka è stata sbalzata dal mondo dei Pokemon al melodramma sportivo ed è molto probabile che l’attuale crisi di risultati della giapponese sia da attribuire agli effetti di quella assurda finale.

Seguirono giorni di dibattito, si tirò in ballo il femminismo, Rosa Parks e la presunta doppia morale degli arbitri che tollerano comportamenti indecenti dai maschi e penalizzano subito le donne quando perdono le traveggole.

Quale è il nostro modello comportamentale? Tomic che getta via le partite e insulta tutti? Al tennis femminile manca un Kyrgios, talento buttato nel suo disordine mentale ai limiti del TSO? Siamo sicuri che sia così?

Quando le Original Nine durante i primi anni ’70 fecero uscire il tennis femminile dal dilettantismo e lottarono perché diventasse uno sport professionistico mostrarono al mondo che non esistono sport (o mestieri) da uomo, ma esiste solo fare bene o male e il rispetto è dovuto comunque.

Billie Jean King, fondatrice del sindacato delle giocatrici, è sempre stata un esempio di sportività e correttezza ed è grazie alla sua straordinaria intelligenza politica se oggi si parla di equal pay nel tennis, dobbiamo a lei se nel tennis è perfettamente normale che una donna arbitri la finale maschile di uno Slam.

Vi immaginate la finale di Champions League arbitrata da da una donna? Io faccio un po’ fatica visto la media comportamentale dei fan di calcio.

Se una madre torna a giocare dopo lo stop per la gravidanza ha il diritto di chiedere scivoli nelle classifiche e persino spazi nei lounge dei tornei per piazzare il pargolo durante i match, ma non può pretendere l’altare come fosse l’incoronata.

Victoria Azarenka appena avuto il figlio ha vissuto una terribile vicenda personale sull’affidamento del bambino, ne è scaturita una causa internazionale fra Usa e Bielorussia,a metà fra spy story e thriller legale, ad un certo punto sembrava persino che la Azarenka non potesse lasciare gli USA altrimenti avrebbe perso la custodia del piccolo. Ora che la vicenda pare conclusa e la Azarenka è tornata a giocare, scontando mesi di inattività e tensioni inaudite, affronta con serietà e correttezza i match, non l’abbiamo mai vista accusare l’arbitro o trasformare in psicodramma le partite.

Ogni volta che Serena viene accusata di comportamenti un po’ al limite esce l’argomento del femminismo, della lesa maestà alla donna, alla madre, all’atleta afro americana più rappresentativa di sempre.

Dobbiamo essere schiavi del politically correct o non è forse meglio ricordare che il femminismo è dimostrare ogni giorno che si può essere come gli uomini senza rinunciare a nulla dell’esser donna?

[foto credito: Tmz.com]