Detesto il giornalismo autoreferenziale (anche quando hobbistico e da blog come questo), ma questa volta cado consciamente nella trappola perché sento qualcosa di personale in questa impresa incredibile di Andrea Vavassori, ragazzo torinese su cui ho versato km di inchiostro digitale, in passato, e ieri, in una parossistica incontinenza emotiva che mi ritrova ancora follemente innamorato del tennis e delle sue trame.
Quello che ha fatto ieri Vavassori lo sapete. Non siete qui dentro per caso, non ci arrivate da Google per cercare la cronaca.
Quindi sapete che vincere il primo match slam a 28 anni, sulla terra di Parigi, contro un ottimo giocatore come Kecmanovic, anche in ottima giornata, andare sotto di 2 set e un break, rimontare, scoppiare fisicamente al quarto, resistere, vincerlo, annegare totalmente al quinto, rianimarsi ancora, tra i crampi, e vincere 11 9 al supertie del set decisivo dopo oltre 5 ore di tennis, senza fare i cambi campo per impossibilità a sedersi, con quel livello di caparbietà e di energia nervosa, è qualcosa che ridefinisce ancora una volta l’idea di impresa tennistica nel giorno delle imprese tennistiche.
Seguirà quella di Wild (giovane brasiliano e buon ex prospetto, uscito da quasi 4 anni in cui ha perso contro tutto e tutti) esecutore in cinque set di Medvedev e quella plateale, teatrale, gigantesca di Monfils redivivo. Alcuni giocatori hanno il senso dell’epica, Monfils, detestato in lungo e in largo per le sue infinite sceneggiate, ce l’ha. E anche Vavassori si è iscritto alla categoria e ci si è iscritto con un percorso molto singolare da cui deriva la mia affezione.
Anni fa, la bellissima lettura di Vite brevi di tennisti eminenti di Matteo Codignola, mi diede lo spunto per l’apertura di una pagina Facebook con lo stesso titolo ma una negazione fondamentale al suo interno. Attratto da sempre da storie minori di scapestrati, svogliati, talenti matti, re per un giorno, frantumatori di racchette e chi più ne ha più ne metta, ho creato Vite brevi di tennisti NON eminenti, una pagina dedicata ai volti inediti di questo sport, con uno spirito giocoso quando non propriamente demenziale, soprattutto in totale opposizione alla retorica e allo stile con cui si racconta lo sport. Persino al moderno storytelling che mi trova più vicino per afflato letterario, ma che mi ha stancato per questo suo anelito a invadere tutto di un climax hollywoodiano furbo e posticcio: l’impresa come metodo narrativo, la singolarità e l’incredulità come fondamento. Se tutto è magico, incredibile e irripetibile non lo è più niente.
Sto divagando. Sapevo subito che questo pezzo sarebbe diventato un flusso di coscienza, spero di avere ancora i numeri per sostenerlo.
Parallelamente a Vite brevi ho messo in piedi un sito, Storieditennis, attualmente inglobato in questo blog pigro, mai aggiornato. Doveva essere la forma più approfondita e colta di quei post lampo su Facebook: è stato così per un po’, ma poi ho ceduto alla mia natura e all’assenza di pubblico. Mi sono arreso all’orribile idea che non possa esistere scrittura senza piegarsi alle sue moderne regole di condivisione. Ora d’altronde ci sono i podcast. E lo storytelling, appunto.
– Adri perché non fai un podcast?
– Non so perché non lo faccio, ne faccio così tante.
La cosa davvero brutta dei social e che dopo aver scritto centinaia di pezzi per campare una volta che ho smesso di fare quel lavoro, quando la creatività non è più alimentata coattamente, sono diventato pigro e Facebook, ormai obsoleto e quindi sempre più adatto per me, nonostante le sue brutture, diventa uno sfogo per le invettive: quello stimolo irrefrenabile alla scrittura che non ho mai perso, si snatura, ma si placa: è una catarsi più che una forma di scrittura.
Non questa volta. Vavassori meritava di più. Meritava un articolo. Non un post, un articolo. Magari slabbrato, a rotta di collo, con dei refusi, senza controlli. Ma un articolo.
Ma torniamo appunto a Vavassori e a Vite brevi perché il parallelismo è molto forte.
La sua storia tennistica è alquanto peculiare: grande altezza e gran servizio, poco dotato di regolarità nel palleggio, ottimo gioco di volo, prova ripetutamente a emergere in singolare, ma fatica e sembra volersi dedicarsi a una carriera da doppista. Idea che lo fa il NON eminente per eccellenza. Un panda del tennis al quadrato. Come non adottarlo!
Sappiamo che la strada del singolare sotto la posizione 100 è durissima e poco remunerativa, ma sicuramente può dare più aspettative e possibilità della vita del doppista. Fatto sta che, prima con meno convinzione, e successivamente con massima dedizione, anche Vavassori prova a costruirsi una classifica in singolare negli ultimi anni, con un tennis aggressivo e faticoso.
Siamo nel 2016 quando vedo i suoi primi match. Non fa propriamente serve and volley come gli idoli di una volta, ma lo usa di frequente. Da fondo è lontano anni luce da quello che è diventato ora, ma l’impostazione è la medesima: grandi maratone per impostare quasi tutto il gioco sul dritto, mentre il rovescio era quasi esclusivamente in back. Per lo più difensivo. A rete mano gentile che avrebbe emozionato Gianni Clerici.
Chissà se Clerici ha mai visto un match di Vavassori.
Capirete che trovare un ragazzo (per me sono tutti ragazzi, sono un vecchio, gente) che gioca in questo modo e raggiunge faticosamente la quattrocentesima posizione al mondo me lo fa eleggere a mascotte ideale della mia pagina strampalata, il tennista con più post dedicati e meno conosciuto fuori dalla nostra nicchia di resistenza al mainstream. La scintilla di un mio mai sopito infantilismo fatto di guizzi e tormentoni che ho questa malsana capacità di imporre fuori dal loro habitat naturale.
– Sai che ho sentito un cronista di Sky usare il termine divellere Adri!
– Ci sta amico mio, ci sta, è termine presente nel dizionario italiano.
Il culmine di questa non eminenza arriva con un video che Andrea ci dedica, grazie all’iniziativa del fido compare Massimo Garlando (io sono incapace di chiedere queste cose). Un video divertente di saluti alla pagina che lascia anche molte interrogativi sull’eloquenza del Vava, visto che non si capisce quasi nulla di quello che dice.
È tutto così maledettamente e divinamente non eminente, ma è anche l’inizio di un percorso di crescita lento quanto esaltante, un viaggio giunto ieri alla sua vetta del romantiscismo sportivo o se preferite a quel climax che noi malati continuiamo a cercare continuamente fallendo il più delle volte.
Nella mia testa questo percorso segue varie tappe che mi sembra si stiano concretizzando, perché io sono e sarò sempre un cazzone, bizzoso e mai serioso, ma senza falsa modestia conosco e capisco di tennis come davvero pochi in circolazione. Se vi sembra una nota che stona con lo stile di questo racconto può starci, ma oggi tutto è lecito, è un flusso, ve l’ho detto.
Il percorso ideale non è fatto di exploit improvvisi e senza senso, quello è il percorso dell’italaltennista più tipico (Nardi per dire, sempre al confline tra talento, estetismo e svogliatezza), non di Vavassori. Qui si tratta di affrancarsi dal circuito Itf, ottenere vittorie sempre più frequenti nei tornei Challenger, fare i primi punti ATP, avere la possibilità di entrare nei tabelloni di qualificazione degli Slam e arrivare a un esordio in uno di questi (Wimbledon l’anno scorso).
Solo allora l’avvicinamento al Graal, alla posizione numero 100 sarà possibile. Questo è ormai il suo prossimo obiettivo, sempre più possibile, specie dopo la vittoria di ieri e l’accesso al secondo turno dove avrà anche uno degli avversari più fattibili che si possono immaginare (Oliveira).
Occhio però che ripetersi dopo certe imprese, con gli strasci fisici che comportano, non sarà facile.
Questo percorso dura un lustro e si configura come lo spot del lavoro che paga nello sport, senza però che la formula diventi ampollosamente retorica, perché Vavassori rimane un tennista di sottobosco fuori da ogni racconto che non sia iperspecialistico.
Mentre il suo tennis cresce emergono alcune caratteristiche che rendono unico il suo percorso, quasi un corto circuito vivente, almeno rispetto al modello di tennista che stiamo delineando.
Il primo: Vavassori, il non eminente con la tendenza al serve and volley, trova il suo miglior tennis sulla terra battuta, teoricamente la sua superficie più antitetica. Non è mai così per un italiano per tradizione, formazione tecnica e abitudine su questi campi; non esistono neanche quasi più le superfici antitetiche a qualcuno nel tennis moderno, però osservandolo sorprende come il suo gioco si adatti benissimo al rosso.
Tre le ragioni.
Sulla terra Vava trova più tempo per spostarsi e impattare con il suo dritto sempre più esplosivo.
La sua prima di servizio rimane tremendamente efficace anche su questi campi e la seconda diventa una grande arma. Il suo kick è letale e gli permette di prendere la rete.
Infine, la sua costante crescita atletica ben si adatta a una superficie molto faticosa ma meno impattante sugli appoggi. La cosa gli permette di caricare il top spin persino sul rovescio, che non sarà mai un’arma nel suo gioco ma sta diventando un colpo sempre più solido.
Il secondo: Vavassori è un lottatore pazzesco, con una solidità di testa davvero sorprendente e un cuore enorme. Ieri ho usato questo termine cardiaco più volte. Non volevo ricercare l’iperbole e la ridondanza come mi è proprio: sono sincero, ho proprio trovato commovente il suo stare in campo, resistere alla stanchezza, la sua lucidità. Ovviamente il turbamento è stato amplificato dalla mia vicinanza emotiva al suo percorso, soprattutto racconta un dualismo irrisolto.
L’amore per gli estrosi riluttanti da una parte (i matti senza testa, insomma), e allo stesso tempo per i grandi combattenti. Quando non diventano supereroi. Della forza infinita di Nadal e Djokovic non so davvero cosa farmene, non è una posa, non mi accendono mai o quasi, mentre non supererò mai questa fase dell’innamoramento per i minori che fanno la storia, meglio se sono belli come Vavassori sa essere. Scisso tra estetismo e determinazione, sconfitto da questa molla primordiale che non mi abbandona: sarà stato il socialismo o qualche mia stramberia irrisolvibile, inutile continuare a indagare.
L’importante è che Vavassori sia diventato, anche lui, qualcosa di più di un giochino autoreferenziale. Ora Vava è un giocatore rognoso, esplosivo, difficile da affrontare e che ha completamente smesso di perdere le partite alla sua portata, cosa per nulla scontata in uno sport dove a volte è più facile fare un miracolo (come il suo di ieri) piuttosto di essere costanti partita dopo partita.
A me pare che lui, ora, possa fare entrambe le cose e vorrei congedarmi ringraziandolo di tutto, soprattutto di quelle incredibili cinque ore abbondanti ieri.
[Foto credito: Roberto Dell’Olivo]