La trippa tra storia, tradizione e moda: le migliori in circolazione

La trippa tra storia, tradizione e moda: le migliori in circolazione

La trippa e le sue declinazioni. Ogni regione/città/quartiere/rione/famiglia ha la sua ricetta secolare, non saremmo in Italia altrimenti, ma è indubbiamente un grande momento per un piatto mitico della cucina italiana e della sua declinazione di strada.

O non lo è ? Il dubbio ci sta: esiste sempre la possibilità che il mio punto di osservazione sulla materia gastronomica sia poco centrato ed eccessivamente filtrato dal mio lavoro di venditore di vino, dai posti che frequento e dai miei gusti particolarmente laidi.

Mi pare però indubbio però che, soprattutto a Milano, il piatto viva un grande momento, probabilmente anche sull’onda del grande successo dell’omonimo ristorante meneghino che ne ha fatto un brand e un modo di concepire la cucina. Oltre che un piatto declinato in tantissime varianti: fritta, in umido, alla parmigiana (d’altronde Diego Rossi è veronese), ecc…

Qualche giorno fa, per dire, ho affondato il cucchiaio nella versione goduriosa di Nebbia, uno dei posti dove uscire più soddisfatti a Milano, attualmente. Diversa da quella che avevo mangiato nello stesso ristorante in precedenti occasioni, ancora più rotonda e avvolgente.

Supportata da Kimchi e menta, la vedete in foto, era golosissima, nonostante io in teoria la preferisca più scarica di colore e quindi di pomodoro.

A questo proposito, nella sua versione più tradizionale (con soffritto classico e poco pomodoro), ne ho mangiata una indimenticabile, fuori carta, alL’osteria della Villetta, ristorante incantevole e schiettamente antico a Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia. Un tempio della migliore cucina lombarda che merita la trasferta.

Iconoclasta quanto riuscita quella di Exit, a Milano, dove l’ho provata però quasi un paio di anni fa ormai. Lì la crema di pecorino dava la marcia in più. Sempre in città da provare assolutamente quella di Ronchettino e di Rovello 18, per citare altri assaggi abbastanza recenti.

Più raramente mi sono imbattuto nella sua versione autenticamente meneghina, la busecca, con tanto di fagioli.

Rimane comunque un piatto selettivo, stretto tra due pregiudizi: l’antifrattaglismo, particolarmente diffuso nel sesso femminile (almeno in quello extra-Toscana, per elevare al quadrato una generalizzazione fatta solo per amore di sintesi) e l’idea che sia un piatto particolarmente grasso.

Di sicuro è una portata sostanziosa e dalla lunga digestione, spesso appesantita dal tipo di cottura e dai suoi condimenti, ma la materia prima paga dazio alla sua derivazione, perché in realtà la trippa – composta da rumine, reticoloso e omaso – è sì collaginosa, ma quasi per nulla grassa. E non di rado viene inserita nelle diete, specie se cotta semplicemente al forno, senza condimenti di sorta.

Ora tre piccoli detour cittadini senza pretese di esaustività, oltre i quali non vado per scarsezza di conoscenza personale delle varie trippe di altre città e regioni. Ho solo un vago ricordo di quella napoletana, nella quale sguazzavano allegramente anche delle patate, mentre me la  sono goduta, come ingrediente di supporto, in una meravigliosa minestra di ceci langarola alla Locanda Fontanazza, a Monforte d’Alba. 

GENOVA

A Genova la trippa è una religione, ma d’altronde cosa non lo è in una città unica, quanto severa sulla sua storia. Culinaria e non. Grandi cucinatori domestici di trippa, in numerose declinazioni, i genovesi la tributano da sempre nei carrugi dove però le tripperie mi sembrano molte meno rispetto a un tempo. Ma soprattutto a casa è piatto sacro e molteplice, visto che a Genova sono più numerosi i tagli utilizzati.

Inutile però dare dei nomi perché non sarei credibile e non comincerò alla mia veneranda età a fare dei pezzi gastronomici consultando Google, però ricordi di aver mangiato qualche anno fa delle gran trippe accomodate con funghi, patate e piselli e soprattutto di averla trovata da comprare o già pronta nei macellai (come Vico Casana). Ma a Genova si mangia anche d’estate, in insalata, con fagiolane, limone, olio e cipolla.

FIRENZE

Sarà anche tra le patrie irrinunciabili della trippa, ma io a Firenze preferisco farmi del male con il Lampredotto, che ne è poi solo una derivazione più specifica (l’abomaso dell’intestino), ma di gran goduria stradaiola.

La trippa fiorentina la trovo generalmente eccessivamente ricca di pomodori pelati, ma non significa che non ne abbia mangiate di ottime. Negli ultimi anni mi sono rimaste in mente quella della Trattoria di Sergio Gozzi, bietta schietta in pieno centro e quella di Burde.

Digestivamente è quella che accuso di più per ragioni probabilmente di cottura, ma potrebbe essere solo un mio limite intestinale specifico. 

ROMA

Per un romano come me è il ricordo d’infanzia, anche domestico: non il piatto della domenica sicuramente, ma un paio di volte l’anno a casa mia si preparava e nelle trattorie era sempre presente. In quella di famiglia, poi, insieme alla pasta e ceci, era tra i classici del pranzo di lavoro e l’odore pungente in cucina mi ci ha allontanato per qualche anno.

Sarà per quello che non l’amavo particolarmente e continuo a non trovare la trippa romana tra le più riuscite, anche se l’accostamento con la menta e l’immancabile pecorino ne fanno un gran piatto sicuramente.

La mia attuale percezione è che Roma non sia più in prima linea nella cultura del piatto e si sia appiattita sulla sua storia, ma potrei facilmente sbagliare e sicuramente i nuovi posti che si sono riavvicinati alla cucina “interiorista”, ne propongono ottime versioni o rivisitazioni come quella di Marzapane (lo Yakitori di Trippa).

Ma vale sempre, almeno per me, l’idea è che la ristorazione di una città si scopre e analizza camminando per strada, avventurandosi (magari con un po’ di fiuto) e rifiutato l’idea, pigra e conformista, del moderno gourmettismo, secondo cui si mangia bene massimo in tre locali per ogni città, naturalmente tutti aperti negli ultimi 24 mesi.

Comunque se volete darmi qualche indirizzo sarei contento di essere smentito.