Solidità e discrezione sono i primi aggettivi che mi vengono in mente pensando a Nebbia, uno dei ristoranti milanesi più validi, sia per chi cerca sostanza e materia, quanto per chi desidera qualche guizzo gourmet a prezzi ampiamente umani.
Non argomento ulteriormente gli aggettivi in quanto sensazioni personali, ma la proposta, che è essenziale e centrata, tutta in proficuo bilico tra capisaldi della cucina nazionale e tentazioni più ardite da moderna bistrattoria.
Definizione che non so se ho appena coniato o l’ho involontariamente rubata a qualcuno. Spero nella prima ipotesi, ma ne dubito, nessuno s’inventa niente ed esistono anche locali con questa crasi.
Per bistrattoria intendo un felice connubio tra un menù molto concentrato e in continua mutazione, tagli (soprattutto di carne) ricercati, sapori ricchi e definiti, qualche classico, accostamenti riusciti, sala senza molti fronzoli.
Sala che forse a Nebbia manco di un filo di calore, quello sì, ma è lo stile del locale a essere schivo, già dal nome, che non evoca esattamente la torcida.
Una formula più facile a dirsi che a realizzarsi, soprattutto una formula che ha trovato progressivamente la quadratura, più avanti rispetto alle immediate celebrazioni che hanno accompagnato la sua apertura. Dalle quali Nebbia ha saputo smarcarsi anche abilmente costruendosi un seguito concreto più che social/mediatico.


Due le mie cene da Nebbia nell’ultimo mese, grazie alle quali ho provato quasi tutto il menù o meglio ciò che c’era in comune a distanza di due settimane.
Come in molta cucina contemporanea gli antipasti sono la sezione più significativa, perlomeno la più istrionica: una sorta di percorso, che, nella sua interezza, potenzialmente potrebbe rappresentare un menù degustazione sui generis.
Tra le proposte, imperdibile sicuramente il Carpaccio di cuore, peperoni e salsa verde che è la foto di apertura. Come anche il tonno, lime e coriandolo (per chi ama il coriandolo, non io…).
Presenza frequente tra gli antipasti anche per lo Sgombro, ricotta e fichi, provato e apprezzato o per il golosissimo piatto di Fegatini d’anatra, pan brioche e cipolle caramellate, da assumere con l’autorizzazione di un cardiologo non troppo severo.
Più parca la selezione dei primi con un ottimo Agnolotto del plin ai tre arrosti e una notevole Pasta e piselli, gamberi rossi di Mazara, cozze e pecorino, il piatto che mi ha convinto a mangiare un primo al ristorante, cosa che non faccio praticamente mai se non in Emilia Romagna.
Attualmente il piatto viene preparato con le seppie al posto dei gamberi, ma sono gli accostamenti e la tecnica di esecuzione a farlo vibrare a dovere.
Un classico assoluto come la Parmigiana di melanzane troneggia nei secondi, dove ci sono sempre anche un pesce e due carni, la seconda delle quali alla brace. Dove ci si butta si cade piuttosto bene. Attualmente, su tutti, proverei la Coda di bue brasata.
Divertente e contenuta la carta dei vini di Marco Marone che segue il concetto della cucina, quindi confort da una parte e piccole chicche dall’altra. Rientra nella seconda categoria l’ottimo Cabert Franc della Loira di Grosbois, che ha accompagnato la mia cena e di cui ho già scritto su Intralcio.
[Tutte le immagini, belle o brutte che siano, sono di Adriano Aiello]