Stefano Travaglia si prende il challenger di Sopot, battendo lo slovacco Horansky 6/4 2/6 6/2. Best ranking disintegrato, tra poche ore sarà numero 79 del mondo, a una sola lunghezza da Seppi.
Riavvolgiamo il nastro e cerchiamo le radici di tale gloria.
Nell’estate del 2011, Stefano Travaglia era un promettente giovanotto non ancora ventenne, reduce da una proficua trasferta in Sudamerica e da buoni risultati, che lo avevano portato ad avvicinarsi in classifica ai primi 300 giocatori del mondo.
In quel periodo, il movimento era in salute solo per fini propagandistici, non lo era nei fatti come oggi, e i nostri teenager erano abituati a divellere con ragionevole parsimonia.
Il tennista italiano, insomma, rispettava ancora generalmente il vecchio schema della maturazione lenta.
Stefano Travagli in pillole
Servizio devastante (in controtendenza italianista) e dritto come punti di forza, buoni fondamentali, mano educata sotto rete erano l’identikit tecnico di Travaglia. Inoltre, il periodo argentino lo aveva rafforzato anche sulla terra rossa, che non sembrava per caratteristiche la sua superficie ideale, consegnando insomma un prospetto di giocatore buono per tutte le stagioni.
La crescita era stata interrotta bruscamente da un brutto incidente domestico nella sua Ascoli Piceno: cadendo da una scala, per proteggersi istintivamente, Travaglia aveva frantumato il vetro di una finestra, rimediando un profondo taglio sull’avambraccio con gravi conseguenze per tendini, muscoli e nervi, che lo avevano tenuto fermo per un anno e messo a rischio la carriera.
La risalita, lenta ma costante, aveva portato i primi risultati nei Challenger e garantito le prime apparizioni nel circuito maggiore: un lasso temporale di due anni tra la centesima e la centocinquantesima posizione in classifica Atp.Sempre con la netta sensazione che mancasse sempre un sei per fare primiera, la capacità di mettere a posto tutte le tessere del puzzle, la botta di culo (chiedo scusa per il francesismo) che dà la svolta alla carriera.
Già, perché gli acuti non mancavano: lo ricordo fare ammattire un Tomáš Berdych versione top 20 e molto lontano dal viale del tramonto odierno, nel 250 di Marsiglia 2018. Curiosa poi, in questo periodo, la particolare predilezione per le qualificazioni Slam, superate sei volte (di cui quattro consecutive, tra Wimbledon 2018 e Roland Garros 2019, una sorta di ‘microslam’).
Tutte le caratteristiche, quindi per il grande salto. E anche un atteggiamento in campo coerente con queste prospettive: grandi autoincitamenti, carica agonistica al limite del nervino, impressione di essere una molla, una freccia pronta a scoccare dall’arco.
Il sei di picche, la tessera mancante, massì, la botta di culo (riscusate) è arrivata a giugno 2019, con la separazione tra Marco Cecchinato e Simone Vagnozzi, il coach con cui il tennista siciliano aveva condiviso la semifinale del Roland Garros, tre titoli Atp e il best ranking al numero 16.
Ascolano come Travaglia, nelle interviste di rito Vagnozzi aveva annunciato di voler seguire a tempo pieno il suo concittadino, con due obiettivi a breve termine: il miglioramento del best ranking (allora al numero 108) e l’ingresso per classifica nel tabellone principale US Open.
Un obiettivo raggiunto, il primo, l’altro rinviato a Melbourne (al momento a New York è fuori di sette posizioni, sarà comunque quasi certamente testa di serie numero uno del tabellone delle qualificazioni). Bene così, direi.
Il resto è cronaca recente: finale in Kazakistan, ingresso nella top100, quarti a Umago e, oggi, trionfo nel challenger polacco, sempre con la sensazione che il meglio debba ancora venire.
Ecco, fossi in Travaglia una cassa di Rosso Piceno a Cecchinato la farei avere, come ringraziamento.
[Foto credito: Massimo Garlando]